SENZA
RETE...
Butterò
questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno,
giuro che lo farò,
e oltre l'azzurro della tenda nell'azzurro io volerò.
giuro che lo farò,
e oltre l'azzurro della tenda nell'azzurro io volerò.
La
voce di De Gregori risuonò nella sua mente, dolce, calda e morbida
come una coperta di cachemire in una notte invernale. La mente umana
è qualcosa di così infinitamente prodigioso, consente davvero di
evadere la realtà rifugiandosi in alieni, unici e indissolubili
mondi. Così è decisamente più reale il suo correre lungo un
infinito verde prato in discesa. L'aria fresca sul viso, sottili fili
aguzzi d'erba nuova che solleticano e pungono le delicate piante dei
piedi. L'odore della campagna umida di rugiada primaverile.
I
grugniti animaleschi di Fetore non possono cancellare la musica nelle
sue orecchie. Non ha mai voluto imparare i nomi di medici, infermieri
e inservienti, ognuno di loro però ha un nome dell'anima nella sua
mente, qualcosa di indelebile. Quello il cui duro, piccolo e
prepotente cazzo si sta facendo strada incurante dentro di lei è da
sempre Fetore. Il Nome, nomen omen, le balzò immediato tra le
labbra, causa l'odore acre di disinfettante e ammoniaca che emanavano
le sue sottili, rudi mani cattive, mentre la spingeva nella sua
futura stanza insieme a Orrore.
Orrore
era l'altro inserviente notturno, un volto che sarebbe stato perfetto
per il peggior Dario Argento. Non aveva ancora deciso chi odiava di
più tra i due, ma avrebbe così volentieri sparso in un fosso i
resti dei loro corpi.
Finalmente
finì. Venne dentro di lei con un grugnito più forte e lungo,
abbandonando per diversi lunghissimi attimi il suo peso sul suo esile
torace, facendole quasi mancare il respiro. Dopo un tempo che le
parve infinito, durante il quale riuscì a valicare di corsa la verde
valle e risalire lungo l'opposta collina, finalmente si scostò e
uscì da dentro di lei. Il suo viso pallido, gli occhi azzurri,
bellissimi, eppure così vuoti dentro la fissarono per qualche
istante. Un sorriso odioso percorse le sue labbra e la sua lingua le
solcò il volto, lenta, dal mento alla fronte, passando su labbra e
occhi, che lei serrò forti.
Fetore
si alzò dal lettino, sollevò le mutande e i calzoni e li
riabbottonò rapidamente. Quindi l'asciugò frettoloso tra le gambe
con uno strofinaccio che prese dalla tasca del camice. Riabbassò la
bianca, ruvida camicia da notte lungo le sottili, candide, delicate
gambe, poi alzò la coperta fin sotto il suo mento. Una controllata
alle cinghie di cuoio che le stringevano i polsi al letto e uscì
dalla stanza, richiudendo la porta a chiave.
La
luce finalmente si spense.
Erano
più di due mesi ormai che veniva legata di notte. Per evitare che
continuasse ad auto infliggersi dolore, disse così lo psichiatra. In
realtà era a lui che aveva voluto infliggerlo, cercando di bucarlo
con la matita. Eppure Hannibal al cinema c'era riuscito, lei aveva
solo fatto un goffo tentativo prima che le sue mani la stringessero e
la strappassero dalle sue piccole dita. Da allora Orrore e Fetore
venivano praticamente ogni notte.
E
con le mani amore, per le mani ti prenderò
e senza dire parole nel mio cuore ti porterò...
e senza dire parole nel mio cuore ti porterò...
e
non avrò paura se non sarò come bella come dici tu
ma voleremo in cielo in carne ed ossa, non torneremo più...
ma voleremo in cielo in carne ed ossa, non torneremo più...
Un
tempo aveva adorato il sesso. Perdersi nella sensuale carnalità,
coinvolgere ogni senso nella continua scoperta di se attraverso
occhi, mani, bocca e corpo di chi le faceva scattare una scintilla di
rivelazione. Aveva sempre pensato che facendone
un peccato il Cristianesimo avesse fatto molto per il sesso.
Ogni
tanto frammenti dei loro ultimi incontri le balzavano agli occhi,
come flash di inusitata potenza, ma non riusciva mai a trattenerli a
lungo, evaporavano rapidi come bolle di champagne lungo il calice di
cristallo di un flute.
Era
lui che le aveva fatto scoprire innumerevoli canzoni e autori, nuova
musica, nuovi pensieri ad aggiungersi al rock, metal, hip hop che
avevano sempre scandito i suoi ritmi. Le aveva spalancato ampie
porte verso nuovi mondi, prima appena intravisti. Nuovi suoni, odori,
sapori che almeno per un po' avevano alleviato la rapida discesa
nell'autodistruzione.
Non
criticava mai, non pretendeva di insegnare altro che il piacere della
vita e mostrare se stesso, intimamente. Era penetrato in modo quasi
insondabile tra le pieghe dei suoi pensieri, passioni e segreti
desideri. Aveva navigato sulle onde della sua apparente follia, della
sua sregolatezza come un leviatano immutabile. Era stato il suo Moby
Dick, mentre lei come un'Achab impazzita lo aveva prima scoperto, poi
stuzzicato, desiderato, inseguito, affascinato arpionato e forse
infine ferito mortalmente.
Ricordava
le sensazioni, le sue labbra su di se, la sua lingua, che adorava
solleticarla ovunque, con una costanza e intensità che la lasciava
sempre attonita, e il suo modo infinito, famelico e insieme goloso di
amarla continuamente, come se non potesse mai saziare totalmente la
sua sete di lei. Invece il volto, la voce erano ormai avvolti nella
nebbia del caos che turbinava nei suoi pensieri. Eppure non era
passato nemmeno un anno.
Quando
la donna cannone d'oro e d'argento diventerà,
senza passare dalla stazione l'ultimo treno prenderà.
senza passare dalla stazione l'ultimo treno prenderà.
Come
ogni notte giunse infine l'alba. I primi raggi del sole si
insinuarono attraverso il vetro smerigliato del l'alta finestrella,
iniziando ad accarezzarle la mano destra. Risalirono poi lenti lungo
il braccio fino a baciarle il volto diafano, le sottili labbra rosa,
gli occhi verdi e i lunghi neri capelli sparsi sul cuscino bianco
come schizzi d'inchiostro di un folle artista.
Ogni
giorno aveva una sua consolidata routine, il medico, l'eventuale
flebo, la costringevano come sempre a mangiare con minacce o
blandizie, le pastiglie e finalmente un paio d'ore nel giardino,
controllata a vista. Almeno poteva sedersi sotto la grande quercia e
assaporare il profumo della primavera.
Come
sempre Cucù si sarebbe avvicinato, timido, guardandola prima a lungo
da lontano.
Cucù
era un contrasto vivente, grande e grosso come un armadio, la mente
di un bambino. Le lasciava spesso piccoli regali accanto all'albero,
foglie intrecciate, ghiande intagliate, piccoli oggetti che chissà
dove trovava. Anche oggi c'era il suo regalo, finalmente proprio
quello che aveva più volte chiesto, quasi implorato, sussurrandogli
all'orecchio. La guardo un attimo scintillare alla luce del sole che
iniziava a svanire oltre le chiome degli alberi, quindi si sedette,
la raccolse furtiva e la nascose.
Il
tempo restante scivolò via come sabbia tra le dita. Furono tutti
invitati a rientrare, mentre i più recalcitranti venivano sospinti
dentro con professionale durezza. Si costrinse a ingoiare l'insipida
fredda cena che trovò nel piatto, quindi poté in premio accedere
alla sala televisione.
Restò
seduta in un angolo il resto della serata, la mente che vorticava
sforzandosi di dare ordine ai flash mnemonici di loro due insieme.
C'erano state cene deliziose, era un amante del cibo, di tutto ciò
che solleticasse gola e sensi, e almeno per un poco le aveva fatto
conoscere gusti intensi e originali, e solleticato il piacere stesso
del gusto. L'aveva usata come cibo, come piatto, come contorno. Aveva
mangiato con lei, su di lei, dentro di lei e avevano fatto l'amore, a
volte prima, spesso durante e sempre dopo.
La
prima volta era stata al ristorante. Un luogo lussuoso, quasi
eccessivo, diverso da ogni posto in cui fosse stata prima con gli
amici. A metà cena aveva dovuto andare in bagno, lui l'aveva
seguita.
E
in faccia ai maligni e ai superbi il mio nome scintillerà,
dalle porte della notte il giorno si bloccherà,
dalle porte della notte il giorno si bloccherà,
Era
entrato dietro di lei nel bagno delle signore. Enorme, dorato, ricco
di specchi e marmi. Non aveva parlato, solo sorriso. L'aveva baciata
profondamente, intensamente, come se da quello dipendesse la loro
stessa sopravvivenza, spingendola poi dentro una delle toilette. Lei
quel giorno indossava un vestitino viola scuro, semplice ma molto
corto, che evidenziava le sue lunghe sottili gambe inguainate in un
collant spesso nero.
Lui
la fece girare spingendole le mani contro la parte di pietra bordeaux
scuro, sollevò l'abito sui fianchi, le abbasso in un unico dolce,
lento movimento collant e perizoma e sentì di colpo la sua mano, le
sue dita. Comprese in quel momento cosa doveva aver provato il
pianoforte sotto le abili dita della maestra di musica, si sentì
solleticata, stuzzicata, suonata in una crescente sinfonia di piacere
assoluto. Quando ormai era sul punto di urlare il suo piacere lui si
fermò. La lasciò un istante boccheggiante, come le mancasse l'aria,
quindi entrò dentro di lei, profondamente.
Lo
accolse come un assetato una giara d'acqua fresca, i loro corpi si
fusero e lui la scopò prepotentemente, senza parlare. Vennero
praticamente insieme. I loro respiri per un poco soffiarono in
sincrono, lenti, profondi, quindi lui uscì, e per la prima volta in
quella situazione si sentì incompleta, mancante di qualcosa di
naturalmente suo. Lui la baciò, sorrise, si riassestò un po' e uscì
dal bagno, lasciandola sola a pensare.
un
applauso del pubblico pagante lo sottolineerà
e dalla bocca del cannone una canzone suonerà.
e dalla bocca del cannone una canzone suonerà.
Uno
strattone al braccio cancello l'immagine nella sua mente. Per un
attimo era stata davvero ancora laggiù, con lui. Orrore le fece
cenno di alzarsi, era l'ora di andare a dormire. Lo disse con un tono
turpe, laido, con un sorriso maligno e il solito brillio perverso nei
piccoli occhi scuri.
Si
alzò silente, lasciandosi accompagnare, quasi spingere verso il
corridoio. La clinica era ormai quasi deserta, illuminata da basse,
fredde luci al neon. Sentì la solita mano che scendeva a stringerle
il sedere, meccanica, brutale, poi la fece scivolare sotto la lunga
camicia bianca, infilando le dita sotto le mutandine. Cercò di
accelerare il passo per scollarselo un poco di dosso ma come sempre
fu inutile.
La
condusse nella sua stanza, mentre le spingeva rude le dita dentro,
sodomizzandola, e sussurrandole oscenità all'orecchio. Si girò per
chiudere la porta dall'interno e allontanò momentaneamente la mano
da dentro di lei.
Scelse
quel momento. Lla tolse dalla bocca dove l'aveva nascosta dopo la
cena, la strinse forte tra le dita e colpì mentre tornava a voltarsi
verso di lei. La lametta da barba gli rigò la gola, quasi fosse una
sottile penna rossa. Lui spalancò gli occhi, alzò le mani cercando
di afferrarla mentre sottili lunghi spruzzi le colpivano il volto. Si
scostò appena mentre cadeva a terra rantolando.
Restò
un attimo a guardarsi la mano, si era tagliata tra le dita,
abbastanza profondamente, mentre lacerava la sua carne. I tagli
avevano da sempre un potere ipnotico su di lei, si feriva spesso,
volontariamente per osservare il sangue uscire, assaporarne le
sensazioni.
La
mano di Orrore le strinse un piede e la riscosse, scalciò via
lasciando cadere la lametta, che risuonò sul pavimento con un
tintinnio. Girò la chiave nella serratura, uscì dalla stanza e la
richiuse dall'esterno, allontanando il suono dei suoi ultimi rantoli,
quindi si avviò lungo il corridoio.
Così
la donna cannone, quell'enorme mistero volò,
sola verso un cielo nero s'incamminò.
sola verso un cielo nero s'incamminò.
Tutti
chiusero gli occhi nell'attimo esatto in cui sparì,
altri giurarono e spergiurarono che non erano mai stati lì.
altri giurarono e spergiurarono che non erano mai stati lì.
I
suoi piedi nudi si mossero in completo silenzio, mentre discese lungo
il corridoio, costellato di porte metalliche bianche, lucide, che non
celavano però le tracce di ruggine nei bordi. Aprì piano la porta
di sicurezza e si avviò verso lo scalone.
Salì
leggera i quattro piani, mantenendosi in ombra lungo la scala, senza
incrociare nessuno o udire alcun rumore, solo qualche lontano
lamento, risata o urla dalle stanze lontane. Ma lei non li udiva
veramente, sorda ormai ai suoni esterni ascoltava il proprio cuore
battere forte, il proprio respiro crescere di intensità, l'intimo
rumore dei propri passi che risuonavano nelle proprie ossa.
Giunse
in cima e si avviò alla scaletta che conduceva al tetto, aprì la
serratura con una delle chiavi del mazzo di Orrore e uscì
all'esterno. L'aria era fresca, un vento intenso le scompigliò i
capelli portando con se parole lontane, ricordi.
Lui
amava Shakespeare, spesso a letto dopo aver fatto l'amore leggeva
alcuni brani, intensi, profondi. Giunsero così parole dal Giulio
Cesare. “e
soffi pure il vento, ormai si gonfino i flutti e balli il legno! La
tempesta è in atto e tutto è affidato al caso”.
Si
abbandonò alla tempesta che la scuoteva dentro come il vento
aggrediva la grande quercia del giardino. Sfilò dalla testa la lunga
camicia, umida di sangue e la gettò a terra, quindi si sfilò anche
le mutandine.
Allargò
le braccia, muovendosi a piccoli passi, nuda nel vento. I piedi la
condussero sul lato nord, proprio di fronte all'albero. La luce della
luna si rifletteva sulle foglie che impazzivano, risuonando tra i
rami.
Giunse
al bordo. Un'esile, giovane spirito nudo, sporco di sangue fuori, di
vita dentro. Aveva in fondo commesso il peccato peggiore che un
umano potesse commettere, non era stata felice.
E
senza fame e senza sete
e senza aria e senza rete voleremo via.
e senza aria e senza rete voleremo via.
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